Non sognano fiori i figli dei fiori. Sognano fiori i figli del cemento. In cambio sognano i figli dei fiori mondi lontani d’Oriente che s’incollano sui fiori dei figli del cemento. Non è dato sapere chi è Felipe Cardeña. Rappresenta egli uno dei misteri della fenomenologia sociale contemporanea. Si dice che sia sospeso in un limbo senza definizione concreta, laddove solo una norma dalla difficile interpretazione lo tiene confinato. Ma esiste. Questo dato è certo.
Si sa invece, da comprovate testimonianze, che quel luogo bizzarro continua a stimolare in lui una secrezione di materiali visivi e tangibili che approdano nel nostro mondo conformista e quotidiano. Sono ectoplasmi d’uno spirito fantasmagorico che parlano un linguaggio estraneo alle prassi abituali, quelle fatte di genuflessioni allo spirito del tempo e al modo delle mode. Felipe Cardeña non è al corrente del dibattito in corso, non si fa coinvolgere. Gli è impossibile quindi credere che le opere d’arte attuali debbano essere di dimensione immensa, intrasportabili da forze umane abituali. Non è stato messo al corrente delle ultime diaboliche invenzioni della concettualità videoartistica. E neppure gli è stato detto che nel periodo della grande crisi senza orizzonte i maestri della contingenza hanno perso ogni interesse per qualsiasi espressione che non venga sancita dai sommi valori plutocratici degli incanti pubblici. Lui, lì, continua a giocare, a sognare, a secretare. E dall’alto piovono petali. Lui li raccoglie con garbo e disordinata disciplina, li ricompone in un tessuto di carta, lascia comparire alcuni esemplari perfettamente individuabili. Forse ha imparato dai cinesi che i fiori non son mai troppi e che l’horror vacui non è solo talento gotico. Forse si ricorda alcuni giochi severi di Ernst e di Hausmann, quelli che loro chiamavano surreali quando incollavano carte e ritagli d’ogni genere rigorosamente in bianco e nero. O forse è mosso solamente dalla perfida legge di Newton, quella della mela ovviamente, e per questo motivo accetta che i fiori vadano a cadere inesorabilmente giù sul tappeto. Comunque l’effetto gli genera particolare sollievo. E poi ci pensa su. Non può finire così rapidamente il gioco della fantasia. Occorre dell’altro. Dalla compressione mentale esplodono piccoli ricordi pronti al ritaglio. Immagini che il cinico giudica sdolcinate e lui reputa dolcissime: tutta una questione relativa alla determinazione della soglia di sopportazione del grado zuccherino. Sono tutti i santini che l’immaginario internazionale fornisce, dagli occhi di Santa Odilia al drago di Giorgio che a quanto pare santo non lo è più, se non nell’immaginetta, quella che sa di essere declinabile con la raffigurazione d’una semi-divinità indiana. Il tappeto assume così un centro di gravità, che non lo spiega affatto ma lo rende necessario all’ambiguità del racconto. Degno di nota.
Il gioco si fa sottile: quanta libertà si cela nelle apparenze del kisch.