Il sistema dell’arte è morto, sepolto sotto cento e passa anni di opere inutili e formalmente sciatte, da idee malsane e stomachevoli, da pippe mentali spacciate per brillanti intuizioni artistiche.
È una carogna in putrefazione, un golem abbruttito dalla sua stessa reiterata stupidità, uno zombie che, come in un filmaccio per bambini deficienti, porta a spasso la sua carcassa infettando chi si trova per caso a incrociare la sua strada.
Credendo, o fingendo di credere, di essere ancora vivo, esso continua imperterrito i suoi vecchi e stanchi riti, spacciando spumante a buon mercato nelle inaugurazioni, promuovendo decerebrati e mascalzoni alla guida di giornali e di poli museali, prendendo ordini da ometti senza uno straccio di idea per rimpinzare i conti in banca di quattro furbastri diventati per grazia ricevuta i padroni del vapore.
Ma il sistema è morto. E quando lo scoprirà, sarà troppo tardi per tornare indietro, troppo tardi per tentare una respirazione a bocca bocca, troppo tardi per salvare dal disastro i pochi gaglioffi ignoranti che credevano di potersi arricchire impunemente a spese dei creduloni che hanno comprato le quattro cianfrusaglie che i camerieri di turno, improvvisatisi curators, hanno malauguratamente consigliato loro di comprare.
Il sistema è morto, e non c’è riforma o riformicchia che tenga: l’unica è abbatterlo con un colpo alla nuca, o tirarsene fuori, e lasciare che s’impicchi con le proprie mani.
Noi, che del sistema ce ne freghiamo, abbiamo la forza, l’ardire e la giovinezza per starne allegramente alla larga.
Come abitanti dell’unica Repubblica in cui ci riconosciamo – la Repubblica anarchica e sovratemporale dell’immaginazione, della psichedelia e del desiderio – intendiamo cantare vittoria prima ancora di aver combattuto qualsivoglia battaglia, perché la bellezza, la gioia, l’immaginazione stanno dalla nostra parte, e chiunque abbia a cuore le sorti della gioia del pensiero fluido e senza schemi, liberato dalle incrostazioni del perbenismo e della maleducazione di un’arte stanca, malata, esangue e mortalmente noiosa, verrà da noi cantando e ballando sopra strati di nuvole variopinte e di rificolone colorate.
Una nuova avanguardia è nata, ma noi non riveleremo a nessuno dove si trova la chiave per accedervi, perché solo i veri adepti, i folli, i disadattati, i malati mentali, coloro che hanno prematuramente conosciuto l’abisso della propria anima e quelli che hanno assaggiato il bastone della repressione e dell’ipocrisia borghese, possono abbracciare la nostra causa, e solo quelli che ci riconosceranno dall’odore che emana dai nostri abiti e dall’iridescenza folle delle nostre pupille dilatate potranno un domani venire assieme a noi, a cantare in punta di piedi e a occhi chiusi le melodie che abbiamo imparato col tempo a modulare.
Poco fa avete ascoltato un nostro compagno africano parlarci dell’arte, del potere e della forza dell’immaginazione in Africa, in Europa e nel suo paese, il Gambia. Forse non avrete capito nulla di quello che ha detto, poiché l’ha detto nel suo dialetto, il wolof. Ma se non avete capito nulla, la colpa è solo vostra. O credete che tutti debbano imparare il vostro italiano o il vostro inglese, soltanto perché l’avete imposto a suon di minacce, di armi, di corruzione e di denaro, la sola lingua che da secoli e secoli siete in grado di parlare? Ma aprite le vostre orecchie, fratelli, aprite la vostra anima e ascoltate la melodia del wolof, ascoltate la dolce musicalità di tutti i dialetti del mondo, ascoltate la musica che sale dalle periferie del vostro mondo, e allora anche la vostra immaginazione comincerà finalmente a volare.
Noi oggi, che come i futuristi della prima ora non abbiamo padri né nonni cui portare rispetto, noi, il più vecchio dei quali non ha ancora compiuto vent’anni, noi dichiariamo solennemente qua, che la vecchia era è morta, perché il turno dell’immaginazione è finalmente arrivato.
Oggi abbiamo preso casa qua, nel colorato e folle paese di Cardeña, perché solo qua ci è stata data l’opportunità di sentirci liberi, anarchici, felici. E qua, oggi, nel cuore del potere della borghesia, vogliamo dichiarare la nostra autonomia e il nostro diritto all’autodeterminazione. Qua, alla Mondadori, un luogo che porta le stimmate della più grande concentrazione del potere editoriale che si sia mai data in Italia – una quota che sfiora scandalosamente il 40 % della produzione libraria nazionale –, intendiamo iniziare la nostra lotta per gettare un guanto di sfida al potere. Come Davide contro Golia, noi sappiamo già che vinceremo, perché siamo gioiosi, strafottenti e indifferenti alle lusinghe del potere.
Noi qua, oggi, 10 ottobre 2017, a cinquant’anni e un giorno dall’assassinio di Che Guevara in Bolivia, nostro fratello di sangue e nostro compagno d’avventure, proclamiamo solennemente l’indipendenza del paese di Cardeña, repubblica anarchica, artistica e transtemporale, dal sistema dell’arte italiano e internazionale. Ne istituiamo formalmente la rappresentanza, e nel momento stesso in cui la istituiamo la distruggiamo, perché crediamo che il solo potere legittimo sia quello dell’immaginazione.
Le nostre sole armi saranno quelle dell’irriverenza, della baldanza e della mancanza di buon senso. I nostri alleati, tutti coloro che non hanno paura di volare. Dopo aver espugnato la Mondadori, passeremo, quando gli sgherri del potere meno se lo aspetteranno, a espugnare Palazzo Reale, l’Orto Botanico, la Scala, e forse anche l’Arcivescovado.
Se occorre, pianteremo le nostre tende sul colle più alto di Roma, e faremo passare chi se lo sarà meritato sotto le forche caudine del desiderio e dell’immaginazione.
Viva la Rivoluzione, viva Felipe, viva la forza inebriante dell’utopia e dell’immaginazione!
Felipe Cardeña Crew, ottobre 2017