Fiori, fiori, fiori – un’orgia floreale accoglie i nostri occhi, il nostro sguardo, la nostra capacità visiva non appena ci dedichiamo all’osservazione degli sfolgoranti quadri di Felipe Cardeña. I fondi delle sue intenzioni narrative, infatti, sono resi a tappeto floreale, come a stabilire l’intenzione portante, direi l’architettura, di tutta l’opera, che di una simile condizione vive e si nutre. Certo, non solo fiori, come vedremo, ma il risalto principale ai fiori è consegnato.
Anni addietro, in una mostra da me organizzata sul tema dei fiori, e intitolata Filosofia dei fiori, avevo osservato, in proposte attuali di artisti i più vari, un sottaciuto, o anche dichiarato, desiderio di tornare a confrontarsi con il genere dei fiori. Si badi bene: non si tratta di un ritorno alle tradizionali Nature morte di fiori, ma dell’esibizione di un rapporto tra uomo e natura osservato per il tramite dei fiori e reso per via simbolica – anche quando la via simbolica non è lo scopo degli stessi autori. Tale attenzione, nei tanti e vari linguaggi della contemporaneità, non compete solo alla curiosità strettamente pittorica, ma si manifesta qua e là in progetti di più ampia ambizione di artisti che non si esprimono, o non si esprimono in via esclusiva, per il tramite della pittura – vanno segnalati in tal senso gli svizzeri Peter Fischli & David Weiss che anni addietro presentarono opere sul tema in una mostra intitolata Altri fiori e altre domande, dove appunto i fiori comparivano sin dalle intenzioni programmatiche espresse con il titolo di forte suggestione e di preciso richiamo.
Cardeña propone i suoi trionfi floreali in chiave che può apparire principalmente ornamentale; ma bisogna stare attenti a non definire un giudizio affrettato, comparendo evidente in lui la consapevolezza dei fiori come segreto del cuore pensante e dell’immaginazione creatrice. Il fiore, nella grande linea della lingua pittorica, esprime pensiero riconducibile alle più varie tradizioni religiose. Per non annoiare, faccio qui due soli esempi: il primo porta in campo San Giovanni della Croce che considerava il fiore quale immagine delle virtù dell’anima – un raggruppamento di fiori in un mazzo, dunque, rappresenta, secondo il suo pensiero, la perfezione spirituale.
E Felipe ce lo dimostra senza tema di smentita. Il secondo esempio è relativo al simbolismo tantrico-taoista de Il Fiore d’Oro (trattato cinese alchemico-taoista) che concepisce l’immagine del fiore come il raggiungimento di uno stato spirituale, formulando l’aspirazione moderna alla coscienza totale – la fioritura è il risultato di un’alchimia interiore, unione dell’essenza (tsing) e del respiro (k’i), dell’acqua e del fuoco. Il fiore ha lo stesso valore dell’elisir di vita, e la fioritura equivale al ritorno al centro, all’unità, allo stato primordiale. E, quanto al centro, in tal senso è sempre esibito l’elemento principale dei racconti di Felipe Cardeña, centralizzandolo, come anche rileveremo più avanti. Egli pone al centro la figura protagonista in una ricerca di attenuamento della perdita di orientamento – pur se, in tanta confusione di elementi messi in campo e sparsi sulla superficie dell’opera, in un tale labirinto, il soggetto principale, sebbene celeberrimo, confonde alla nostra percezione la propria origine e provenienza.
Egli sensibilizza tutte le possibili simbologie nell’accumulo del collage – perfezionato con tecnica invidiabile e che appare come una smentita sonora nei confronti del fascino del suo opposto, lo storico décollage. Le sue sono opere condotte a taglio di forbice, a pennello di colla, a costruzione di puzzle, a reinvenzione pittorica attraverso il già esistente – assunto, quest’ultimo, a motivo di rimembranza e reinvenzione: attraverso il già dato, il già scritto, il già visto, si riscrive il mondo della sensibilità pittorica e immaginativa. La domanda che ci si pone di fronte agli effetti speciali delle opere di Felipe Cardeña è come si possa avere una sensazione tanto felice di leggerezza nella visione di un’esagerazione proclamata di ritagli esibiti a collage. Diversamente, infatti, da esperienze minimali in cui il meno è il più (come formulò Mies van der Rohe in teoria ferreamente osservata dai seguaci del Bauhaus), qui in casa Cardeña il più è ricercato senza fingimenti. Invertendo i valori di una famosa frase di Alberto Moravia dedicata all’opera di Giosetta Fioroni, Felipe aggiunge invece di togliere, dà importanza al pieno invece che al vuoto. Eppure il risultato, ripeto, è consegnato alla leggerezza – ritengo per ulteriore, preciso assunto narrativo, e per affermazione di una cifra di ironia esibizionistica.
Se dovessi riferire il senso di leggerezza a una citazione musicale, nelle opere di Felipe, questa è per me rintracciabile in una indicazione di movimento di Giorgio Federico Ghedini, per l’ultimo movimento della sua Sonata per violino e pianoforte in la maggiore del 1918: Allegro, risvegliato e giocoso. Le opere di Felipe Cardeña appartengono a quella dimensione di un fresco risveglio di primavera, in quel momento dell’anno in cui la natura riprende a proclamare se stessa, sollecitando per il tramite dei sensi tutte le memorie del mondo.
Il dono dell’ironia è nelle corde realizzative, direi nei cromosomi, di questo autore che gioca sul mistero della propria identità, dichiarandola a sorpresa, tra le più varie smentite dettate dalla sua assenza fisica, come se egli fosse irriproducibile agli occhi di chi deve prendere in considerazione solamente il suo fare creativo. Un quasi fantasma, come tale si rese la Garbo, senza più interpretare film; e come anche e ancora si rende la nostra maxima cantante Mina, presentando la sua voce solo per il tramite discografico.
Ma che l’ironia di Felipe Cardeña, sia flagrante al solo presentarsi delle opere è tautologia impossibile da smentire. Nelle realizzazioni visive di Felipe Cardeña si respira a pieni polmoni un’attesa di gioia. Accanto ai fiori rintracciamo altri elementi, altre componenti: frutti e verdure, per esempio; e poi: gemme preziose, gioielli, flaconi di essenze profumate, vassoi, piatti, ciotole, bicchieri colmi di vino, farfalle, pesci e pavoni, motivi decorativi e anche devozionali più che spesso orientali, porzioni di immagini di dipinti della storia dell’arte, stralci fumettistici, ritagli di scritture d’Oriente, etichette pubblicitarie, luccicanti superfici a foglia d’oro. Un sovrano «minestrone» su cui vengono adagiate immagini famose, a volte celeberrime, delle culture di tutto il mondo – provenienti dall’Occidente come dall’Oriente. La presenza di gemme e gioielli è ulteriore rivelazione di una ricerca di simbologie particolarmente raffinate e sapienziali – normalmente si ritiene che i gioielli raccontino la vanità delle cose umane e dei desideri. Ma anche qui, una lettura più approfondita delle simbologie ci rivela che, per le loro pietre, i loro metalli, le forme, i gioielli rappresentano la conoscenza esoterica; spesso interpretabili come sostituti dell’anima, o raffigurabili come tali, in senso junghiano, raccontandoci la ricchezza sconosciuta delle nostre profondità d’animo.
Le opere di Felipe Cardeña nascono per necessità iconica, formulazione di una visione consapevole della storia, di quanto ha preceduto il fare del presente, rendendolo possibile e garantendolo – fornendogli un’implicita e necessaria autorizzazione alla citazione. Perché, se c’è una cosa che non si può negare all’immaginazione creatrice di Cardeña, è la coscienza di un attraversamento culturale, ampio, sfarzoso, senza nascondimenti – egli non si schermisce, ma esibisce una cultura stratificatasi attraverso studio e attenzione di continuo applicata, come atto di presenza a se stesso, di felicità della memoria, di preziosità dei tanti assunti culturali che una curiosità onnivora hanno perfezionato nel tempo e nell’arco realizzativo del suo fare. Felipe Cardeña sa che se esistiamo, oggi e così come siamo formati e definiti, lo dobbiamo a tutto quanto ci ha preceduto – e, nell’ampliamento attuale di ogni visione, in virtù del pensiero globale, a tutto quanto ci ha preceduto nella storia del mondo intero. In questo la sua fantasia è una instancabile viaggiatrice.
Lo sottolinea, in particolare, in questa mostra che raccoglie opere sotto il titolo Mythology. I Miti competono agli uomini e alla loro storia, sotto tutte le latitudini, in tutte le geografie – ogni cultura ha saputo creare, determinare e definire i propri. E Felipe Cardeña, come un’ape sui fiori, sugge da ogni mitologia il nettare necessario alla sua trasformazione alchemica – da materiale «dimenticato a memoria» nella storia a vivacissimo e fermentante concime per i sogni del presente. Una trasfigurazione degli stessi elementi mitologici, secondo una concezione che ha nutrito tanta arte della fine Novecento.
In Cardeña forte è la presenza di una intenzionalità pop, nel senso abbreviativo di popular. Molti riferimenti per le sue costruzioni immaginative appartengono infatti a un mondo di cultura diffusa, se non diffusissima, assunti proprio in virtù di fama, di immediata identificabilità. Feticci di cultura popolare, come stanno a dimostare molti elementi desunti da messaggi pubblicitari. Naturalmente, in una dimensione pop, egli non può non giocare stilisticamente sulla collisione di vari piani: forma colta e forma popolare, nella coniugazione di alto e basso, infimo e sublime, sciocco e intelligente.
Questa intenzionalità pop, riferita a una cultura orientale, è ben raccontata nell’opera Il Maestro del Giudizio Universale, che presenta Ganesh con una impostazione tipica dell’iconografia che di Ganesh è possibile rintracciare nelle raffigurazioni a lui dedicate dall’immaginario indiano e non solo (basti pensare alle tantissime scuole di yoga sparse in tutto il mondo). Ganesh simboleggia la conoscenza, il suo corpo di uomo è riferibile al microcosmo, così come la testa d’elefante al macrocosmo. Nella raffigurazione dell’elefante è concepito il concetto di inizio e di fine, di alpha e di omega. Qui, nell’opera di Felipe, il tocco di slittamento ironico è fornito dallo scoiattolo che in basso sostituisce la presenza standard del topolino, quale riferimento all’ego da tenere sotto costante controllo. E anche, sempre ai piedi di Ganesh, da un’etichetta con la scritta le Leggere, che sembra avere relazione con il cibo contenuto sia nel piatto in una delle mani della divinità, sia in un altro piatto molto simile ma più grande sotto di lui – cibo che può apparire come un rinvio al famoso episodio della fame insaziabile dello stesso Ganesh.
In Helter Skelter – titolo che inevitabilmente rinvia alla celeberrima canzone del 1968 dei Beatles e il cui significato è riferibile sia a certi scivoli a forma elicoidale presenti nei luna park, sia a un feroce concetto di confusione più che mai disordinata –, la tradizionale raffigurazione di íí che dall’eliminazione dei demoni passa all’uccisione degli uomini sino a che non viene fermata da Śiva, suo marito, è ulteriore elemento di cultura che sa riconoscere se stessa attraverso la fama di precise immagini; per un tale svolgimento di mito, il titolo della canzone beatlesiana ci appare quanto mai appropriato. E se anche Helter Skelter volesse essere una indicazione del metodo compositivo del collage di sostegno alla dea Kalí, in tal senso risulterebbe un inganno intelligentemente perpetrato: perché, come ho già segnalato, quello determinato da Felipe Cardeña è un ordine armonico che si fonda su un apparente disordine. O, per meglio precisare, come l’ordine che si stabilisce partendo dal caos, il quadro generale dell’opera di Cardeña vibra di queste appariscenti contraddizioni. Dirò di più: sono, le sue, immagini che in un solo tempo si costruiscono e si dissolvono vivendo di situazioni concettuali estreme. Si può ipotizzare, inoltre, che le immagini di Cardeña, così disgregate e ricreate, diventano veicolo di verità più nascoste, celate dietro le caotiche epifanie.
Molta tradizione indiana, dunque. Una simile attenzione alle virtù indiane dell’induismo, è anche l’esercizio per svolgere la propria lingua in mezzo ai rischi dei luoghi comuni – non cadendo nella trappola di rappresentarli in quanto tali e in piena adesione, ma rifornendoli di una innovazione visiva che passa per il gioco costante, portante e ineliminabile dell’ironia, come non mi stanco di asserire, oltre che per la ricchezza di condimenti visivi. Continuando nella zona orientale di questa Mythology, ci possiamo imbattere in tracce di alfabeto devanāgarī (di frasi che per la complessità di tale scrittura custodiscono il loro segreto alla comprensione di noi occidentali), e anche di alfabeto sanscrito e altri alfabeti di Indie e di Oriente – alfabeti che, come memoria di viaggi legati al mito, compaiono spesso nelle opere di Felipe. Ne troviamo una traccia fugace, come un sottofondo sonoro di parola pronunciata in accompagnamento all’immagine di Krishna, soave suonatore di flauto (Venugopāla) in Golden Flowers. Qui la visionarietà è accogliente, non ricorre a momenti spaventosi di follia irresistibile dell’impulso distruttivo come per Kalí – siamo in un’oasi tranquilla, che ci fa sentire bene accolti e accarezzati dall’immaginazione della musica misterica evocata dalla semplice presenza del flauto.
Dirigendo i propri passi da Oriente verso Occidente, Felipe non può non fermarsi nei pressi della storia nordafricana, tra Egitto e Sudan: The Mystery of the Falcon esibisce una elaborata e bella raffigurazione in forma di falco di Horus, «dio del sole» (non a caso l’opera ha un formato circolare simbolo del disco solare), incarnazione sulla terra del faraone, e figlio del dio Osiride e della dea Iside. Il rapace ha le ali spiegate e stringe tra gli artigli i simboli della vita e dell'eternità quindi del potere universale del faraone. In The Idol, la grande testa scultorea del dio Sebiumeker si staglia su varie figure ancora molto orientali (la testa è di epoca meroitica, dalla città di Meroe, vicino a Shendi in Sudan, ed esibisce occhi rubati ad altra statua di simile collocazione geografica): in particolare colpisce la figura di un cinese d’epoca maoista, in alto a destra; e la presenza inopinata di un oggetto di bigiotteria applicato sulla superficie, gesto innovativo dell’invenzione di Felipe.
Dal Sudan e dall’Egitto alla Grecia il passo è breve e inevitabile – ed eccoci di fronte a vari prodigi della maestria vasaria in The Golden Age, in Il ritorno degli eroi, in L’armi, gli eroi (dove fa la comparsa nel fondo, in alto a sinistra, anche uno stravoltissimo Superman), in The Heroes of War (con figure Depero in alto a destra, e una fumettistica scritta – Krak – che sembra una minaccia di rottura per il meraviglioso cratere). Ma anche, ancora e soprattutto, ecco opere che propongono teste scultoree che mescolano le carte di una geografia antica, perché dalla Grecia si giunge, poi e inevitabilmente, all’antica Roma. Possiamo partire da Le temps retrouvé, in cui si presenta in reato di flagrante bellezza una testa femminile con elmo (prima metà del V secolo a.C.), ritrovata sull’isola greca Egina. La testa, che si inserisce nel periodo tra l’arcaismo finale e lo stile severo (500-450 a.C.) rappresentava con tutta probabilità la dea Athena. A tanta bellezza Felipe si è concesso di ritoccare gli occhi, quasi in gesto di sfida – perché è come se egli avvertisse la contaminazione grottesca di una miscela di apporti storici e visivi i più disparati di cui è pieno il nostro mondo conoscitivo.
La Venere dei fiori propone con devozione la Venere di Milo, cui contrappone una sorta di nuova Venere assunta dalle carte avvolgenti le arance Naturel della Trovato S.n.c. di Catania. Ma è con Le poème de l’angle droit, che giungiamo alle sponde antiche della cultura romana. Qui ci imbattiamo nella Testa di Amazzone dalla Villa dei Papiri di Ercolano, di età augustea. E va sottolineata la contraddizione apparentissima proclamata da Le poème de l’angle droit – titolo e grafica dello stesso direttamente assunte citazionisticamente da Le Corbusier – dove di angoli retti non appare nemmeno l’ombra, ogni immagine essendo consegnata a una visione mossa ai limiti di una eresia nei confronti di tutti i razionalismi e a favore di un frattalismo così come formulato da Mandelbrhot (e in Cardeña, qua e là molti sospetti, e non solo sospetti, di frattali appaiono). Non a caso, quanto a sensazione di «minestrone», la conferma qui appare con la presenza di una busta di minestrone surgelato.
Proseguiamo con la Testa di Augusto Imperatore di Love Song. La Testa (27-25 a.C.) è quella di Meroe, vicino a Shendi, in Sudan, oggi al British Museum di Londra. In quest’opera assistiamo all’improvvisa apparizione di un guanto dechirichiano (rubato intatto dall’olio Canto d’amore, del 1914, presso il Museum of Modern Art di New York), che spudoratamente ha cambiato testa scultorea di riferimento, dimenticando l’Apollo di Belvedere. Una sorta di tradimento matrimoniale, perpetrato dall’impertinenza costante di Cardeña.
In Metamorfosi del classico incontriamo una delle molteplici raffigurazioni di Antinoo, il fanciullo amato dall’imperatore Adriano, che ci riconduce subito dalle parti del capolavoro di Marguerite Yourcenar. Anche riconosciamo immagini di aeropittura futurista in alto a sinistra (Giacomo Balla, Celeste metallico aeroplano (Balbo e Trasvolatori italiani), 1931) e tracce di un dipinto del pittore spagnolo Carlos Forns Bada, amico di Felipe, in alto a destra. La ricchezza dell’immaginario si accentua, intensificando tutte le scommesse di messa a fuoco delle componenti, e proponendo una sfida in stile aguzzate la vista di tradizione Settimana Enigmistica. Perché di enigmi si tratta, non solo di libere associazioni, nel furibondo accumulo caleidoscopico.
In effetti, il viaggio si complica, continuando con The Labyrinths of Memory, esibente il celeberrimo Gruppo del Laocoonte, e con The Last Memories, con convitati Terenzio Neo e sua moglie (prelevati dall’affresco pompeiano, 55-79 d.C.), e giungendo, poi, alle Tre Grazie di Antonio Canova (cui Felipe ha cercato di spezzare braccia e gambe) di Harmony; alla Grande Odalisca, di Ingres (sulla cui superficie, appare di nuovo una bigiotteria applicata); e a The Mysterious Rituals, con la figura campeggiante proveniente dal dipinto orientalista A Roman Boat Race del 1889, di Sir Edward John Poynter, e con tracce di strutture alla Perilli, altra aeropittura, stralci di disegni cashmere, e il solito putiferio floreale e di quant’altro visivamente commestibile. Aguzzare la vista, diventa un esercizio pericoloso, come se si fissassero con troppa intensità reboanti fuochi d’artificio.
Il mondo di Felipe Cardeña riconduce la mia memoria agli anni del Flower Power, la cui poetica – che per molti negli anni Sessanta del secolo passato ha significato, e che per l’intrinseca simbologia dei fiori sempre significa, una possibilità di rendere concreto il desiderio di superamento delle normali percezioni umane (non a caso i fiori si legano indissolubilmente alle visioni estatiche) – sortisce effetti fondanti nella sua poetica. Le opere di Felipe Cardeña disinnescano l’ansia perché sono opere attrezzate di intenzioni – sanno quello che vogliono, conoscono il proprio intimo itinerario. Non che egli si dia come un hippy di ritorno e decisamente in ritardo – ma segnala convinto che il potere dei fiori è capace di santificare la maniacalità dei ritagli di carta. Questi, infatti, per una strana operazione alchemica, divengono pittura, una pittura installativa di forme che sanno e vogliono dichiarare la parola bellezza, senza porsi i limiti di solito imposti da un pudore cinico e intellettualizzato. In più e ultimamente, come ho già descritto in alcune analisi di opere, sulla superficie emergono preziosismi che sembrano discendere dal Settecento: brillantini, strass di vari colori, gioielli di stoffa ricamata, ma anche gioielli di bigiotteria orientale – una ricerca del superamento di una superficie che si è sin qui data per piana e levigata e che tenta un’estroflessione di se stessa, dei propri elementi narrativi, una materializzazione di ciò che sino a un attimo prima viveva soltanto in un mondo di carta. Che ora, per forza di evocazione, assume forma. Anche, in tanto putiferio floreale, verrebbe da domandarsi quale profumo, per sinestesia, si diparte dal visivo di queste opere per giungere all’olfattivo. Alcune etichette e bottigliette e flaconi, ci suggeriscono N° 5, oppure 4711, e anche Azzaro. Insomma, sembra dirci Felipe, sfrena la tua immaginazione e vivifica i tuoi sensi. Se guardi dei fiori, non puoi evitarti la coscienza del profumo degli stessi.
Fiori, dunque, a profusione: rose, naturalmente, fiori della passione, dalie, pansè, margherite, papaveri, gerbere, orchidee, zinnie, e ancora, ancora, ancora; un dolce annegare in un mare di fiori cui non è concesso appassire.