Basta vedere una delle tante opere-collages che ha realizzato negli ultimi tempi per innamorarsi della sua arte, che sprizza gioia, felicità, bellezza. Fiori di tutte le varietà, dimensioni, colori, che fanno da base a composizioni straordinarie per originalità e inventiva. Una delle ultime serie di lavori, intitolata The Black Dahlia, come il celebre romanzo di James Ellroy, è un omaggio personalissimo e disincantato all’America delle pin-up, al noir Anni Cinquanta, alla letteratura dei giornali "pop". Questo però non è che uno dei tanti aspetti del lavoro e dell’arte di Felipe Cardeña. Noi l’abbiamo incontrato, e ci siamo fatti illustrare "il meraviglioso mondo di Felipe" raccontato da lui medesimo.
Come è nata la sua passione per arte e dintorni?
È una "malattia" che ho contratto fin da ragazzino. Quando ero piccolo, un mio zio, un ex prete (una figura strana, un po’ alla Almodóvar, che era stato cacciato dalla Chiesa per una misteriosa vicenda biografica, di cui in famiglia era rigorosamente vietato parlare), mi portava con sé per delle lunghe vacanze "culturali": a Madrid (grandi abbuffate di pittura al Prado), a Barcellona (la Sagrada Familia è stata la mia "rivelazione" adolescenziale), ma anche in Italia, perché era di origine italiana (la famiglia di mia madre è italiana). Così io sono cresciuto con un’adorazione strana e un po’ morbosa soprattutto per certa pittura del Cinquecento e del Seicento spagnolo, ma anche italiana… El Greco, Velázquez, Goya, Caravaggio sono stati i miei primi amori, assieme ai fumetti di fantascienza: Enki Bilal, Moebius, Ranxerox… Poi, intorno ai vent’anni, ho avuto una "sbandata" per la Pop Art (Warhol, Lichtenstein, Basquiat, Keith Haring), oltre che per i fumetti americani della Marvel e per capolavori ineguagliati come il Batman di Frank Miller. Infine, l’incontro fortuito, a Majorca, con un personaggio straordinario, il pittore psichedelico Mati Klarwein (era sua, per capirci, la famosa copertina del disco dei Santana Abraxas) mi ha portato a decidere che avrei fatto l’artista.
Quando ha cominciato a dipingere?
Non ho mai veramente dipinto. Ho disegnato, costruito sculture con i materiali più vari, realizzato collages…
Lei non è certo un artista convenzionale. Oltre a mostre ed esibizioni, si è fatto notare anche con performances inusuali, spesso a sorpresa. Ce ne parli…
Ho cominciato facendo incursioni in mostre a cui non ero invitato. A Madrid, ho impersonato "statue viventi" davanti all’ingresso di mostre collettive… Di solito mi scambiavano per un artista di strada, e di fatto un po’ lo ero. Mi vestivo "da statua" e stavo fuori dal portone, immobile, per 4-5 ore di seguito… Poi, nel 2005, attraverso un’amica spagnola che lavorava in Italia nel "giro" dell’arte contemporanea, sono stato invitato per la prima volta a tenere una delle mie performances ufficialmente, in una mostra che si chiamava Miracolo a Milano: sono rimasto 6 ore immobile, dentro una scatola di legno che formava la "base" della scultura, facendo spuntare solo la testa, per impersonare il Battista decollato…
Lei si definisce artista sans papier. In che senso e perché?
Non ho mai avuto una dimora fissa, tranne quando ne sono stato costretto da ragioni di forza maggiore.
Quali sono i suoi artisti di riferimento? Pittorici, ma non soltanto.
Mati Klarwein, Roy Lichtenstein, Robert Williams, Antoni Gaudí, Enki Bilal, Giacomo Balla, Jean-Michel Basquiat, Allen Ginsberg, Mark Ryden, El Greco, Fortunato Depero, Takashi Murakami, Max Ernst, Tanino Liberatore, Andy Warhol, William Burroughs, David LaChapelle, Raoul Hausmann, Mimmo Rotella, Keith Haring, Gilbert & George, John Heartfield, Kehinde Wiley, Robert Rauschenberg, Andrea Zucchi, Moebius, Marc Quinn, Richard Hamilton, Colin Christian, Pierre e Gilles, Luigi Ontani, Jeff Koons, Ray Caesar… e Felipe Cardeña.
Dalla fine del 2007 ha dato il via al progetto Power Flower. In che cosa consiste, quanto durerà, e quali saranno i prossimi step?
Il progetto Power Flower, coi suoi collages di fiori colorati nelle sue diverse declinazioni, è quello attorno al quale ruota gran parte del mio lavoro attuale. Power Flower è il titolo di una mia serie di collages di piccole dimensioni (cm 24x30) che va avanti da un paio d’anni ed è destinata, nelle intenzioni, ad andare avanti all’infinito (al momento ne ho fatti oltre 200), ma, in senso più ampio, è la sigla sotto la quale può stare un po’ tutta la mia opera attuale, composta appunto dal lavoro sulla ricchezza, estetica e dinamica, delle forme floreali.
Perché la scelta del collage, e perché la scelta dei fiori?
L’amore per il collage è "sbocciato" tre anni fa, durante un periodo della mia vita estremamente difficile, nel quale sono stato costretto a stare "rinchiuso" in un luogo per diverso tempo, senza poter avere contatti col mio mondo e con i miei amici di sempre. Da lì la scelta spontanea di una tecnica meticolosa, monotona e ripetitiva fino all’ossessione: tagliare fiori, e riappiccicarli poi, uno per uno, all’infinito, sulla tela, aveva, ed ha, un suo potere magico-curativo (o, citando Jodorowsky, potrei definirlo "psico-magico"), apotropaico e "liberatorio": è come recitare un mantra, o una preghiera, o come snocciolare ad uno ad uno i grani di un rosario. Aiuta a pensare, ma anche a liberare la mente, a riconciliarsi con le forze latenti dell’universo, a sognare dimensioni "altre", ad evadere, a volare con la fantasia e sentirsi "liberi" anche quando non lo si è nella vita cosiddetta "reale".
I fiori sono una scelta naturale e in un certo senso obbligata: sono le figure più ricche e più belle che esistano in natura, nella bizzarria delle loro mille forme differenti, e nelle tonalità dei loro straordinari colori… Sono il pattern, la "scenografia" fantastica su cui costruisco le mie storie, il mio mondo, insomma la geografia immaginaria di quel folle universo che io chiamo "il paese di Cardeña".
Il fiore come oggetto d’arte, pittorica e fotografica, ha riferimenti nobili e importanti. Per limitarci al Novecento, basti ricordare Georgia O’Keeffe e Robert Mapplethorpe. E adesso Felipe Cardeña…
Ci sono straordinarie testimonianze di fiori nell’arte, in quella antica come in quella contemporanea. Io amo i fiori nell’arte quando diventano elemento insieme decorativo e altamente simbolico: da Georgia O’Keeffe, certo, ai tenui fiori del "marchesino pittore" Filippo de Pisis, simbolo della caducità e sensualità della natura, alle montagne di fiori riversati sulla tela da Alma Tadema: basti ricordare il suo capolavoro Le rose di Eliogabalo, dove una distesa di rose faceva da contorno ai sollazzi dell’imperatore… (D’Annunzio paragonava la pittura di Alma Tadema a "un raro pezzo di argenteria, qualche cosa come un gioiello carico di cesellature, un avorio scolpito e inciso, un alabastro meticolosamente traforato": ho l’ambizione di credere che forse, chissà, avrebbe potuto dirlo anche dei miei collages…). Ma tra i contemporanei, credo che Marc Quinn abbia raggiunto un vertice straordinario con i suoi Frozen Garden, giardini di fiori congelati, immersi in silicone liquido a 20 gradi sottozero: un miracolo della forma pura, dove il giardino diventa un’opera impossibile e assoluta, in perfetto equilibrio tra suggestione naturale e creazione artificiale… Così come lo erano, d’altra parte, anche certe bizzarrie e «meraviglie» botaniche settecentesche…
A qualcuno le sue opere recenti ricordano anche le composizioni di Gilbert & George e di David LaChapelle.
Amo moltissimo il lavoro di Gilbert & George, e considero David LaChapelle uno dei migliori artisti contemporanei, per lo meno tra quelli che utilizzano la fotografia. Esteticamente devo molto a entrambi; ma non dimentico anche il lavoro di Pierre e Gilles, che, come ha detto Jeff Koons, «sono sempre alla ricerca della bellezza in tutte le cose». Anch’io mi sforzo di fare lo stesso…
Una sua serie di lavori è intitolata The Black Dahlia. Chi e che cosa l’ha ispirata? I riferimenti più immediati sembrano essere l’America Anni Cinquanta, le pin-up, i settimanali pop, la letteratura noir. Che altro ancora?
Era un omaggio a tutto questo, certo. The Black Dahlia, il romanzo cult di James Ellroy, è stato uno dei miei grandi amori adolescenziali; lì ho scoperto che il "lato oscuro" della natura umana non va rimosso o demonizzato, ma capito, studiato, indagato: bisogna insomma farci i conti giorno dopo giorno. Del resto, ho sempre subito il fascino ambiguo della cronaca nera, e ho sempre amato il noir, cinematografico e letterario.
Di recente i suoi collages, in formato gigante, sono arrivati persino a Cuba.
Una poetessa e "agitatrice culturale" cubana, Ana Pedroso, s’è innamorata del mio lavoro, e mi ha chiesto un intervento site specific per Arte Mas 2009, il Festival Internacional de Arte y Literatura Joven da lei curato. Io ho pensato di riprendere l’iconografia tradizionale del Che – che è ormai, a tutti gli effetti, un puro simbolo pop, al pari di Mao, di Marilyn o del Dalai Lama –, immergendolo in un ricco e coloratissimo sfondo floreale; come titolo, ho scelto un brano di una celebre canzone cubana: Cuba es un jardín de rosas. Ho poi riprodotto il lavoro in una serie di grandi pannelli di oltre tre metri di base, che sono stati affissi in diversi punti strategici de L’Avana. Il lavoro originale è stato poi donato alla Municipalidad de L’Avana, che l’ha installato in via definitiva nella sede dell’Accademia di Belle Arti.
Dopo i fiori e i collages, che cosa ci sarà?
Il collage e i fiori ormai sono una parte del mio mondo, e non credo che potrò abbandonarli facilmente. Più che altro affiancherò altre tecniche al collage: di recente ho realizzato alcune "sculture floreali", utilizzando fiori di stoffa, sui quali intervengo poi, con il cucito e con il ricamo, inserendovi scampoli di tessuti differenti, pezzi di stoffa colorata, parole e slogan ricamati sulle foglie e sui petali… Vorrei far mio il motto del secondo futurismo, secondo il quale si può «ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente»: i fiori di Felipe usciranno inevitabilmente dalla superficie della tela, per invadere liberamente il mondo…
Lei non ama molto parlare di sé. Possiamo almeno sapere dove vive e con chi?Dove vivo? Che domande! Ma nel paese di Cardeña, no?
La sua più grande soddisfazione finora?
Dare sprazzi di felicità a chi ama il mio lavoro.
Un sogno (artistico ma non soltanto) da realizzare.
Sogno di essere invitato a realizzare una casa completamente invasa dai miei fiori: fiori su tutti i muri, sulle porte, sugli oggetti, sull’arredamento, sui tappeti, sui letti, e poi fiori che spuntano dai muri, che sgorgano dai rubinetti del bagno, che straripano dagli armadi, dalle finestre… E, anche in giardino, una valanga di fiori: veri, finti, artificiali, coltivati, selvatici, esotici, europei, tutti mescolati insieme, in un tourbillon infinito e strabordante…
Che cos’è per lei l’arte contemporanea?
Un mondo dove nulla è impossibile.
Lei è un collezionista?
Più che altro, colleziono opere di amici artisti, con cui a volte faccio scambi di opere, o con i quali mi càpita anche spesso di fare lavori a quattro mani: ad esempio ne ho fatti diversi con la pittrice ucraina Svitlana Grebenyuk.
A parte lei, un artista contemporaneo su cui puntare e perché.
Paolo Schmidlin: è uno dei migliori scultori d’oggi, perché affronta in modo disincantato, raffinatissimo e a tratti crudele l’ossessione della bellezza, della giovinezza oltre ogni possibile limite naturale, insomma quella dittatura della bellezza artificiale che governa la società contemporanea.
Fra 50 anni, cosa le piacerebbe che rimanesse di lei?
I quadri di un artista bizzarro e un po’ fuori dalle righe, che aveva inventato un pazzo pazzo pazzo mondo fatto unicamente di fiori.
Per chiudere: chi è Felipe Cardeña?
Un artista che ha cercato di trasformare il caos in bellezza, e la difficoltà di vivere in eterna gioia estetica.