Oggi Felipe Cardeña è considerato un brillante artista dell’Art Collage, abile con le carte, ingegnoso con le tele, intraprendente con gli stendardi e con qualsiasi altro tipo di supporto che gli consenta di spaziare all’interno di soggetti, forme, dimensioni e tecniche differenti.
Tuttavia, prima ancora di uscire alla ribalta nel sistema dell’arte contemporanea con questo suo stile floreale così connotato e riconoscibile, l’artista spagnolo ha sperimentato molteplici e diverse pratiche artistiche, che gli hanno permesso di maturare a poco a poco l’attuale poetica del collage.
Nato nel 1979 a Balaguer (Spagna), Felipe Cardeña avrebbe avuto – almeno stando alla sua biografia ufficiale – una formazione atipica che, al di là del normale percorso di studi accademici, l’ha portato a contatto con la storia della pittura spagnola del Cinquecento e del Seicento, e con quella italiana, grazie ai numerosi viaggi effettuati (almeno considerando l’unica sua intervista conosciuta) assieme a un misterioso zio. Artisti come Velásquez, Goya, El Greco, Caravaggio sarebbero dunque stati i suoi primi riferimenti, mescolati ai fumetti di fantascienza e a quelli dei supereroi della Marvel.
Il vero e proprio battesimo nel mondo delle mostre e delle gallerie sarebbe avvenuto in Spagna all’inizio del 2000, con un approccio di stampo «situazionista», che avrebbe spinto Cardeña a escogitare incursioni, azioni e performance estemporanee spesso non autorizzate. Benché siano ormai passati circa cinquant’anni dalla nascita del movimento Internazionale Situazionista (1957-1972), gli influssi di questa filosofia di pensiero e di vita sono chiaramente percepibili nella poetica del giovane artista spagnolo, venuto nel frattempo a conoscenza delle esperienze della Pop Art americana, e forse avendo avuto contatti anche diretti con i protagonisti della Street Art europea.
Tenendo fede ai messaggi dell’Internazionale Situazionista (secondo i quali per Guy Debord «l’unica impresa interessante è la liberazione della vita quotidiana» e che sostenevano di essere «degli artisti soltanto in quanto non siamo più degli artisti: stiamo realizzando l’arte»), confluiscono in questo ambito forme di realizzazione sempre più distanti ed estranee all’attività artistica tradizionale, affinché vi sia un uso «situazionista», cioè connesso alla vita reale, dell’arte; con, in più, un «salto» concettuale, tipico degli anni recenti e fatto proprio anche dalla Street Art, o da esperienze parallele, quali quelle del gruppo Luther Blissett/Wu Ming, che mira a rendere difficile distinguere il piano della realtà vissuta da quello della finzione artistica, o mediatica. L’attenzione dei situazionisti, a cui si ricollega chiaramente l’opera di Felipe Cardeña in questa prima fase, è rivolta alla elaborazione di strumenti e di modalità che si pongano al di fuori del mondo dell’arte, ricorrendo ad alcuni dei procedimenti codificati da Mario Perniola nel suo volume I situazionisti (Castelvecchi Editore, Roma 1998):— la psicogeografia
— il gioco
— il détournement
— il controllo delle tecniche di condizionamento
— la pittura industriale
Il percorso di Felipe Cardeña può essere visto come un attraversamento successivo di queste fasi, in una versione aggiornata e rivista, per approdare all’Art Collage da una prospettiva nuova e più consapevole sia della storia dell’arte che della esperienza di vita.
La psicogeografia
Il primo atto di questa tragicommedia si consumerebbe – sempre stando alla biografia – nella città di Madrid, dove l’artista avrebbe impersonato «statue viventi» davanti all’ingresso di spazi espositivi, secondo lo spirito provocatore e destabilizzante che accompagna la pratica della psicogeografia dei situazionisti: un nuovo approccio ai fenomeni urbani e artistici fondato sull’esperienza dell’alienazione vissuta nello spazio, secondo il metodo della «deriva», cioè dello spaesamento passionale attraverso il cambiamento repentino di ambienti. La stessa labilità e vaghezza di queste prime esperienze, di cui non resta alcuna traccia documentabile, è del resto quanto mai aderente allo spirito situazionista proprio, e a maggior ragione, per la sua mancanza di documentazione, e dunque di alcuna certezza né finalità pratica per la futura «carriera» dell’artista (al contrario di quel che fanno oggi molti street artist, che realizzano le loro effimere opere al solo scopo di documentarle e «farle vivere» nello spazio mediatico). A questi presupposti corrisponde anche la prima partecipazione ufficiale e documentabile, avvenuta nel 2005, alla mostra pubblica Miracolo a Milano, a cura di Alessandro Riva, allestita presso Palazzo della Ragione di Milano: qui l’artista è rimasto per sei ore immobile (se per le altre esperienze precedenti fa fede la biografia dell’artista, di questa performance ho invece io memoria diretta, essendo stata presente all’inaugurazione della mostra), rinchiuso in una scatola di legno facendo spuntare solo la testa, per impersonare la statua di San Giovanni Battista decollato. Un esercizio lungo ed estenuante, che avrebbe messo alla prova chiunque e che per Cardeña ha significato una sorta di iniziazione al circuito delle mostre italiane, che nella decontestualizzazione dei ruoli e degli spazi ha azzerato qualsiasi preconcetto dell’artista sull’arte e sulle sue funzioni. Sulla stessa scia, l’anno successivo, nella mostra, da me curata, dedicata ai finalisti della seconda edizione del Premio Italian Factory per la giovane pittura italiana, alla Casa del Pane di Milano, l’artista ha impersonato, per tutta la durata dell’inaugurazione, un vecchio «loco» (o un fantasma?), chiuso nel «solaio» dello spazio espositivo, dal quale urlava invettive in spagnolo e riempiva di improperi gli stessi esterrefatti visitatori della mostra.
Il gioco
Da qui in poi Cardeña sarà presente in alcune mostre collettive con una serie di sculture come l’Ecce Woman in plastica policroma o l’Ardor Guerriero, in legno policromo, ready-made oggettuali che fanno il verso al secondo precetto del gioco situazionista. Rispetto alla concezione classica del gioco, in questo atteggiamento vengono negati i caratteri ludici di separazione dalla vita corrente, ma al contrario è connaturata una presa di posizione morale, che attraverso la prassi del ready-made di statuette di uso sacrale e devozionale – il Sacro Cuore di Gesù o il frate-crociato – vuole restituire un senso di fiducia e speranza nei confronti di una militanza pacifica ma ferma nei ranghi dell’arte e all’interno della società.
Il détournement
Il terzo tempo consiste nelle azioni di détournement come perdita di importanza del significato originario di ogni singolo elemento autonomo e l’organizzazione di un altro insieme significante, che conferisca a ogni elemento una nuova portata. È una operazione che Felipe Cardeña ha già innescato nella sua attività artistica attraverso la forma del ready-made e che porterà a compimento con l’Art Collage. In questa fase, il punto di arrivo è un’opera che perde il suo valore autonomo, artistico, per presentarsi come la negazione dell’arte, soprattutto per il carattere di comunicazione immediata e rivoluzionaria che possiede. Ne è un esempio l’epigrafe su marmo (presentata a Milano, alla Flash Art Fair, nel 2006) che recita un motto di Jean-Michael Basquiat: «I don’t know anyone who needs a critic to find out what art is», quale presa di coscienza lucida e disarmante dello scollamento tra ciò che l’arte è (la sua essenza) e ciò che le fa da corollario (l’apparato della critica a cui ruota attorno). Qui il détournement consiste nella attribuzione di un valore primigenio a un sistema di riferimento già preesistente (l’arte). Lo stesso atteggiamento di nuova appropriazione semantica è presente anche nel gesto clandestino con cui ha installato una bandiera dei pirati sull’ingresso del PAC, Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, durante la mostra Street Art Sweet Art, come metafora della colonizzazione fisica e spirituale degli spazi deputati all’arte contemporanea da parte degli artisti di strada, considerati comunemente fuori dal sistema.
Il controllo delle tecniche di condizionamento
Il quarto tempo di questa progressiva crescita fa riferimento al discorso del controllo delle tecniche di condizionamento. Oggi possiamo a ragione affermare che la pubblicità e i media offrono strumenti di condizionamento nuovi e straordinariamente efficaci: l’informazione subliminale e il lavaggio del cervello ne sono degli esempi ancora oggi utilizzati. Per questo motivo è necessario che queste tecniche di influenza e manipolazione non restino monopolio del potere, ma siano usate in una direzione rivoluzionaria. I nuovi artisti potrebbero diventare così «persuasori occulti» non al conformismo, ma alla libertà. In questo ambito si collocano alcune attività clandestine, in concorrenza al potere ufficiale, che nel caso della comunicazione mediale sono rappresentate dalla satira e dalla caricatura. Felipe Cardeña ha aderito a questa tattica situazionista fin dal 2009 con il progetto Felipe Cartoon pubblicato con cadenza settimanale sul sito ArsLife.com. Si tratta della realizzazione di una vignetta sprezzante e burlesca, secondo lo stile a collage dell’artista, che mette in primo piano un personaggio o un fatto della cronaca italiana e internazionale uscito alla ribalta su quotidiani o Tv. Come in una sorta di rubrica a immagini, i cartoons di Felipe spaziano dalla politica alla cronaca nera, dalla cultura all’economia, dal gossip alla letteratura, cercando di riequilibrare, con il suo spirito sagace e ironico, l’ago della bilancia dell’informazione a favore della libertà di espressione dell’arte. In questa sua storia che opera una condensazione delle notizie in tempo reale, sono passati al setaccio personaggi come Obama, Berlusconi, il Papa, Michael Jackson, o fatti della cronaca come la situazione di Gaza, il caso di Eluana Englaro, la sicurezza in Italia, la vicenda di «Videocracy», il problema della par condicio, e tanti altri ancora.
La pittura industriale
Infine, per quanto riguarda l’ultimo punto del manifesto situazionista, ci si appella all’idea di una «pittura industriale» che però non ha niente a che vedere con il disegno industriale, perché non propone un modello da riprodurre, ma fa piuttosto riferimento ai rulli unici, lunghi anche parecchie decine di metri, utilizzati da Pinot Gallizio.
Nel caso di Felipe Cardeña, potremmo collegare il concetto di pittura industriale alla serialità e ripetitività del suo modus operandi nell’arte del collage, che fa ricorso a una tecnica meticolosa e ossessiva dettata da momenti successivi, come in una catena di montaggio industriale: il ritaglio dei frammenti, l’incollaggio uno ad uno sulla tela, poi l’apposizione di un’icona riconoscibile che dà il senso a tutta l’opera, infine la copertura con uno strato superficiale di resina lucida.
L’arte del collage ha una storia molto lunga che caratterizza tutto il Novecento, dai primi papier collé cubisti, che inserivano ritagli di carte incollate in una composizione piana sul foglio, al prelievo surrealista polimaterico e polisemico, dalle «forme colorate in rilievo» dei futuristi agli assemblage e Combine Paintings americani degli anni Sessanta.
La ricerca di Felipe Cardeña si colloca certamente anche nel solco di questa tradizione, ma si allontana da un uso prevalentemente materico nell’accostamento dei frammenti per una scelta preliminare di immagini prelevate da fonti disparate e poi immesse in un contesto fantasmagorico, che ricorda i fiorami delle carte da parati (papier peint, papier tenture).
Il concetto a cui fa riferimento l’artista è quello di creare un’inflazione di valori artistici tradizionali tale da comprometterne la sopravvivenza. Questa inflazione non è altro che l’affollamento di segni e immagini che si ritrova nella sua Art Collage, intesa come rivoluzione ludica, creazione e distruzione continua, cambiamento perenne e incessante spostamento semantico. I collage su tela di Felipe Cardeña sono puzzle coloratissimi e multiformi, che si aggregano nella frenetica sovrapposizione di sagome di fiori e frutti ritagliate con precisione certosina da riviste di floricoltura e bricolage. All’interno di questa flora composita fa capolino, qua e là, l’immagine straniante di un’icona votiva, il busto di un imperatore romano o il ritratto di una cortigiana rinascimentale, l’effige di un santone indiano o la maschera di una tribù africana, e ancora l’eroina sexy di un fumetto Marvel o la Dark Lady di una spy story anni Quaranta (come The Black Dahlia), a sancire la completa perdita di riferimenti spazio-temporali.
Per quanto riguarda l’ultima serie di lavori Power Flower, la ricerca di Felipe Cardeña si concentra attorno a tre filoni principali: le divinità induiste; le iconografie della storia dell’arte; i personaggi dello star system. Apparentemente tre narrazioni storiche e culturali diverse, in realtà accomunate da elementi corrispondenti ma soprattutto emblematici della complessità dell’universo e delle modalità di decodifica al pubblico.
Nel caso della religione induista, per esempio, sono rappresentati Ganesh, il dio con la testa di elefante; Krishna, una delle divinità più popolari e venerate, l’avatar dalla pelle color blu scuro; Kalì, la consorte di Shiva, la dea della distruzione e della morte. Sono immagini prelevate da manifesti di grandi dimensioni, che si presentano sotto forma di raffigurazioni da cartoons, con colori sgargianti e con una quantità di piccoli particolari mimetizzati con lo sfondo che, a prima vista, sembrano inseriti solo in qualità di riempitivi, ma che invece rivelano messaggi profondi (come la svastica, il flauto, le perle) e lasciano intuire la complessità della più antica religione del mondo.
Venendo alle iconografie prelevate dalla storia dell’arte, si spazia dalle Tre Marie di Giotto ai paggetti di Botticelli, da Giuditta con la testa di Oloferne di Lucas Cranach alla Dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci. Stili ed epoche diverse sono appiattiti dal fondo floreale a collage che elimina dalle raffigurazioni iniziali contesti e ambientazioni storiche e lascia affiorare in primo piano lo sguardo della figura con il suo carico simbolico di significati e di rimandi psicologici ed emotivi.
Per quanto concerne il discorso dei personaggi celebri della storia, del potere o della cronaca, già esaminati nel progetto Felipe Cartoon, la messa in scena coinvolge figure mitiche come il Dalai Lama e Obama, i Beatles ed Elvis Presley, Marilyn Monroe e Rocky, Mao e Che Guevara. Soggetti di estrazione sociale e politica diversa, che hanno spesso rivestito ruoli politici strategici o hanno preconizzato grandi cambiamenti nella musica e nei costumi, qui ricondotti, al contrario, alla loro natura di icone pop spersonalizzate e standardizzate, capaci di una rigenerazione visiva senza fine. La riduzione del mitico ed eroico a icona pop, kitsch, su uno sfondo variopinto e psichedelico, inequivocabilmente omogeneo e identico per ogni opera, costituisce il veicolo perfetto per distanziare l’immagine dalla complessità e dalle ambiguità della vita reale e per trasformarla in uno stereotipo che vive all’interno di un’astrazione ideale.
Questa miriade di disegni e tele va a formare un’installazione unica, data dall’associazione a incastro di moduli sempre uguali che si alternano per la varietà continua di forme e colori e per la condensazione o rarefazione delle sembianze, in un caleidoscopio di fluorescenze che rinvia alla psichedelia più totale.
L’emersione di un bagaglio iconografico di differente tipologia, epoca o provenienza, testimonia e documenta il saccheggio predatorio entro il linguaggio della storia dell’arte e il lessico della comunicazione visiva, in un horror vacui in cui si mescolano i codici della cultura alta e bassa. Come già affermava Pablo Picasso con il suo motto: «I cattivi artisti copiano, i grandi artisti rubano», il furto di immagini e icone è proprio delle grandi personalità artistiche perché, nel momento in cui hanno preso coscienza di una problematica e di un’emergenza, sono in grado di riappropriarsi degli stimoli provenienti da diversi ambiti espressivi, ricollocandoli in posizione privilegiata e critica con l’accentuazione di un particolare ordine di idee o di significati.
L’importanza di questo procedimento consiste nel fatto che, per mezzo di esso, soggetti e immagini strettamente connessi alla società, alla religione, alla cultura, alla letteratura e all’immaginario sia occidentale che orientale vengono sottratti alla loro destinazione e posti in un contesto qualitativamente diverso, in una prospettiva rivoluzionaria. Segno che le cose più eccelse, come quelle più banali, possono essere l’oggetto di una appropriazione molto più profonda, a livello inconscio e psicologico, della loro semplice fruizione passiva o del loro possesso economico.
La mano che ritaglia fogli colorati, vecchie riviste, cartoncini, fotografie retrò e che raccoglie e riutilizza immagini in sé potenzialmente espressivi, opera sul crinale sottilissimo tra iconoclastia e risemantizzazione delle forme. Come affermava Raoul Hausmann, nel dispiego dei diversi materiali impiegati e nella loro costellazione in superficie, non si dovrà leggere una semplice «pratica di costruzione e di assemblaggio», ma piuttosto una «equivalenza soggettiva tra percezione emozionale e composizione». Negli ibridi fotografici di Cardeña, la sintesi di opposizioni formali è portata al più alto livello dell’espressione formale e dell’impatto emotivo.
Milano, maggio 2011